#9: Oh Amore, cos’è che insegui?

Cosa è veramente l’Amore e qual è la sua utilità per la nostra vita?

A che serve soffrire per amore? E soprattutto, è vero che si può soffrire per amore?

Cosa amiamo realmente e perché lo inseguiamo così tanto?

A tutte queste domande Platone risponderebbe con una visione ben chiara!

Terminiamo oggi la nostra incursione nel “Simposio” con il cap. XXIV, nel quale la sacerdotessa Diotima tenta di rispondere alla domanda di Socrate su quale sia l’utilità dell’Amore dato che, come la sacerdotessa ha ben spiegato in precedenza (vedi post #7: L’Amore e la Mancanza), l’Amore non è né bello né buono, ma neanche brutto o cattivo, quanto piuttosto qualcosa che sta in mezzo tra questi due estremi (202b).

Nel capitolo che vi propongo, Diotima spiega perché Socrate aveva frainteso “la natura di quel demone”, in quanto egli credeva che “Amore fosse l’amato, non l’amante” (204c) e per questo, dice la sacerdotessa, “Amore ti appariva bellissimo. E in realtà ciò che ispira amore è bello, delicato, perfetto e beato; ma l’amante ha un’altra natura, come t’ho spiegato”… come a dire “fortunato chi è amato, ma non chi ama”!

Platone, Simposio XXIV:

Ed io (Socrate) ripresi: “Va bene, o straniera, hai ragione; ma se Amore è così che utilità reca agli uomini?”.

“Ecco il punto, o Socrate, che proverò ora ad insegnarti. Amore è appunto tale ed è nato così e, come dici tu, è amore del bello. Se ci chiedessero: ‘In che, Amore è amore del bello, o Socrate e Diotima?’, cioè più chiaramente: ‘Chi ama il bello, ama, e che ama?’”.

Risposi: “Che il bello diventi suo”.

“Però - rispose - la risposta vuole ancora questa domanda: Che succederà a quello che potrà possedere il bello?”.

A questa domanda risposi che non sapevo, lì per lì, cosa rispondere.

“Ma come se uno, sostituendo al bello il buono, domandasse: ‘Dì sù, o Socrate, chi ama il bene, ama, e che ama?’”.

“Di possederlo” risposi.

“E che gli succederà quando gli riuscirà di possedere il bene?”

“Qui posso più facilmente rispondere, dissi: diventerà felice.”

“Si, le persone felici sono felici perché posseggono il bene; e non occorre più chiedersi a qual fine intenda essere felice chi così desideri, perché la risposta mi par definitiva.”

“E’ vero” dissi.

“Ora, pensi tu che questo desiderio e questo amore siano comuni a tutti gli uomini e che tutti aspirino a possedere sempre il bene? Come la pensi?”.

“Così - risposi - che siano comuni a tutti.”

“E allora come mai, o Socrate, non diciamo che tutti amano, se è pur vero che tutti amino, e sempre, le medesime cose, ma piuttosto diciamo che alcuni amano e altri no?”.

“Già - risposi - rimango stupito anch’io.”

“Non stupirti - esclamò - gli è che noi stacchiamo una sola specie di amore, e la chiamiamo Amore imponendole il nome dell’intiero; mentre per le altre specie ci serviamo di altri nomi.”

“Per esempio?” chiesi.

“Eccoti: sai che creazione indica qualcosa di complesso: perché ogni atto per cui una cosa passa dal non essere all’essere è creazione, così che tutte le operazioni usate nelle singole arti o mestieri sono creazioni ed i loro artisti-artigiani sono creatori.”

“E’ vero” dissi.

“Tuttavia, continuò, tu sai che non si chiamano creatori, ma hanno altri nomi, e che solo una piccola e delimitata parte dell’intera creazione, quella che riguarda la musica e i versi, si chiama con il nome dell’insieme: soltanto questa si chiama creazione (poesia) e solo coloro che posseggono questa particolare parte della creazione, si chiamano creatori (poeti).”

“E’ vero” dissi. “Ebbene, lo stesso è dell’Amore. In breve, ogni desiderio di bene e di felicità è per ciascuno il grandissimo e insidioso Amore. Ma coloro che per ogni altra via tendono a lui, attraverso il guadagno, la ginnastica e la filosofia, non diciamo che amino né li chiamiamo amatori, coloro invece che si muovono con ogni zelo verso una specie di esso, hanno il nome dell’intero, amore, amare e amatori.”

“Nulla di più probabile - dissi - che tu abbia ragione.” “Ebbene! - riprese - si continua a dire un certo discorso secondo il quale amare significherebbe cercare la propria metà. Ma il mio discorso dice che Amore non aspira né alla metà né all’intero, se non nel caso, mio caro, che questo sia comunque un bene, perché gli uomini sarebbero pronti a tagliarsi via i loro piedi e le loro mani, se credessero che queste parti di se stessi fossero malvagie. Perché ognuno non aspira a ciò che è di se stesso, a meno che non chiami buono il proprio e il di sé, e male l’altrui, dato che null’altro c’è che gli uomini amino, se non il bene. O ti pare in modo diverso?”.

“Per Giove, a me no di certo” risposi.

“Possiamo dunque - continuava lei - dire semplicemente che gli uomini amano il bene?”.

“Si”, risposi.

“E che? Non si deve aggiungere che amano anche possedere il bene?”

“Va aggiunto, sì.”

“E non solo possederlo, ma anche possederlo sempre?”.

“Va aggiunto anche questo.”

“Riassumendo quindi, l’amore è desiderio di possedere il bene per sempre.”

“Verissimo” dissi io. 

Il ragionamento della sacerdotessa ci mostra un punto di vista completamente diverso da quello che adottiamo di solito: Diotima mostra infatti a Socrate come in realtà ognuno di noi aspiri alla felicità, che tentiamo di realizzare attraverso il possesso - per sempre - di ciò che riteniamo il nostro bene.

Questo è uno dei punti principali della filosofia “socratica”, ossia il ritenere che nessuno aspiri al male: se un’azione può essere considerata malvagia, il motivo è che chi la compie ha confuso quale sia il vero bene per se stesso.

Un altro punto importante a cui giunge la sacerdotessa è che, in realtà, si cerca l’amore dell’altro solo perché lo si ritiene un bene per noi: stando a questo, si dovrebbe dedurre - almeno in senso logico - che non dovremmo tentare di perseguire ciò che, facendoci soffrire, non ci produce un bene!

Ma lo sappiamo già, tra il dire e il fare… ci passa il confuso mare che ci abita dentro!

E tu, come vivi l’Amore?